venerdì 31 gennaio 2014

Al buio.

Al buio.
Al buio Brunilde percepiva ogni piccola parte del suo corpo. Ritrovava la pelle delle sue mani notevolmente invecchiata ad ogni sguardo. I solchi erano simili a quelli del suolo dei deserti aridi di certe zone del pianeta. A mano a mano sempre più profondi. Sin dall'infanzia aveva l'abitudine di mangiarsi la pelle intorno alle unghie dei pollici. Una volta, alle elementari, una maestra le chiese se si fosse ustionata in quei punti. La pelle aveva assunto una sfumatura di un dolcissimo color rosa pallido ed era tutta frastagliata, piena di solchi, marmorizzata. Brunilde ricordava di quell'episodio il fatto che prima di quel momento, non ci aveva mai fatto caso. Così da quel momento iniziò a pensare a come la vedevano gli altri, dall'esterno. La loro percezione forse poteva essere diversa da quella che lei aveva di se stessa, e magari gli altri potevano far caso a ciò a cui lei non poneva attenzione, considerandolo ovvio.
Al buio.
Al buio Brunilde faceva ogni cosa. Essere esposta alla luce del giorno o a quella artificiale, la rendeva terribilmente triste a causa del fatto che doveva tendere i suoi muscoli, fingere.

Il buio era la sicurezza, la comprensione, la protezione dagli attacchi esterni, il conforto. La punizione che inconsapevolmente infliggeva a se stessa per il fatto di non sapere dov'era.
Esattamente. Brunilde non sapeva dov'era. Nel senso, Brunilde non sapeva dove si nascondesse davvero Brunilde. Quale fosse la sua vera casa.
Aveva girato molti posti, o forse nessuno, e Brunilde era in ognuno di essi, e quindi in nessuno.
Il sogno di Brunilde era trovare un posto adatto per Brunilde.
Ma qual era? Qual era Il posto? Quale il luogo dell'essenza?
Al buio.
Al buio Brunilde un giorno si mise a correre. Corse in quei posti a lei quasi del tutto estranei e ad un certo punto vide qualcosa. Vide Brunilde con la sua mamma. Questa baciava le sue guance perfettamente sferiche, come del resto il suo capo; la teneva ben salda tra le sue braccia. L'amava così, come lei stessa aveva sempre desiderato essere amata.
In quell'amore, Brunilde era l'oggetto o il soggetto, a seconda dei punti di vista. Lei era al centro dell'attenzione per il semplice fatto che esisteva. Brunilde apprese quella condizione.
Crescendo, Brunilde continuava ad essere amata per il semplice fatto che esisteva, ma non per ciò che era.
Nessuno sapeva chi era, nemmeno lei. Ma avendo appreso la condizione dell'amore passivo, non si sentiva in dovere di scoprirlo e, se qualcuno ci provava, lei lo respingeva ferocemente, terrorizzata, in piena difesa territoriale.
“Io non so cos'è, MA E' MIO! MH. Non osare avvicinarti!” ...


Correva e poi d'un tratto vide questo e dovette fermarsi, non poté fare altrimenti. Vide tutto rischiararsi. Al buio.

Gradualmente si dischiudeva la sua bocca perfettamente disegnata, come un bocciolo di rosa fa con la sua vita fresca. Gli occhi si sgranavano sempre più, per cercare di identificare lo spazio intorno a lei, ma tutto era sommerso dalle tenebre. Era una bella sensazione di accoglienza, quella.
Brunilde aveva capito almeno una cosa: che non sapeva amare. Non semplicemente che lei non amasse, non sapeva proprio farlo! E questo perché le era stato insegnato qualcos'altro, e cioè ad essere oggetto di attenzioni morbose che la sua mamma identificava come amore. La sua povera, mai amata mamma.
Insomma le era stato inculcato il ricevere senza fine, mai il dare.
Brunilde non decideva mai per se stessa o di se stessa. Brunilde non remava mai, si lasciava piuttosto trasportare dalla corrente.

Al buio.
Al buio Brunilde sedeva sul freddo pavimento della solitudine; tenendo le ginocchia strette al petto e la testa chinata nell'incavo del suo cuore. Al buio Brunilde versava i liquidi nascosti nelle profondità del suo corpo più difficili da raggiungere. Lei scendeva lì giù, prendeva l'acqua salata e la faceva uscire attraverso dei condotti delicatissimi, color ambra e nocciola.
E così, ancora una volta, perdeva parti di sé per poi sentirsi a pezzi.

Nell'esatto momento in cui Brunilde vide farsi chiaro, si accorse di sentire qualcos'altro; una cosa che desiderava da moltissimo tempo. Finalmente Brunilde non aveva più paura della morte. Questa era una cosa fantastica per una come lei, perennemente terrorizzata dall'irrimediabilità delle cose!
Finalmente avrebbe potuto decidere della sua morte, e quindi della sua vita, senza paura ed in totale autonomia! Le dispiaceva solo che non avrebbe più potuto condividere quel momento con la persona che sempre aveva voluto accanto. Molto tempo prima gli aveva chiesto se avesse voluto condividere la morte con lei, e lui acconsentì; ma ora che finalmente lei non la temeva più e che la vedeva quindi come possibilità di liberazione, non poteva più aspettare!


Prese Matteo, amore, padre, amico e fratello; i suoi gesti, i suoi sguardi straripanti di verità e le sue parole colme d'amore; e se le mise nel cuore. Non avrebbe mai potuto abbandonarle se non nelle profondità della sua putrefazione interiore, per non discostarsi troppo dalla sua egoistica natura. Prese la sua povera madre distrutta e se la mise sulla schiena e poi si girò a guardare suo padre, ormai così lontano da apparire ai suoi occhi solo come un puntino d'odio e risentimento sulla ventilata collina. Prese il ricordo del suo amato cagnolino, morto di dolore interiore e obesità qualche tempo prima; prese il ricordo della sua cavalla dal mantello infuocato, morta di dolore anch'ella e di parto, che Brunilde aveva seppellito nel cuore, insieme al suo puledro che non vide mai la luce del sole.
Prese tutte queste cose e se le mise nel cuore, quindi esso pian piano iniziò ad andare in putrefazione per la presenza di troppe carcasse morte di dolore; per la presenza delle parole inascoltate; dei ricordi dell'amore al quale non aveva dato la possibilità di perpetuarsi. Prese tutte queste cose e mentre il suo cuore iniziava a morire, lei se lo staccò dal petto e lo lasciò nell'erba appena ricresciuta dopo un incendio. Esso boccheggiava come un pesce appena pescato e sbattuto sul fondo della barca con tutta la violenza di cui solo un pescatore è capace.
Brunilde finalmente era libera di vivere e così fece, togliendosi la vita.

Il suo cuore fu rinvenuto pochi giorni dopo. Ormai non boccheggiava più, ma era ancora integro. Lo ritrovò Matteo,che era andato sulla rupe alla ricerca di Brunilde, sicuro che l'avrebbe trovata lì. E così fu. Trovò il suo cuore, che era la stessa cosa.
Lo portò alla madre e non poterono far altro che stringersi in un abbraccio infinito, d'amore. Solo il padre di Brunilde sembrava non essere minimamente mosso dall'accaduto. Vide il reperto, finse di dare un colpo di tosse e si voltò nuovamente indietro, per tornare a casa sua. Da solo.

domenica 19 gennaio 2014

La storia degli incapaci.

Si sentiva esattamente come quando vieni rifiutato dalla ragazza alla quale hai fatto il filo per troppo tempo ed in ogni modo possibile. Poco importava poi, se non si trattava di una ragazza ma di una casa editrice. Il concetto era lo stesso.
“Lei è troppo prolisso, signor Bentolli. Noi siamo indirizzati verso qualcosa di più sintetico, immediato...ci dispiace..”

Le parole potevano cambiare leggermente da una casa editrice all'altra, ma la melodia era la stessa: i suoi raconti erano troppo lunghi. La tendenza del momento era il minimal. Minimal nella musica, minimal nel modo di vestire, e minimal nella narrativa.
Il signor Bentolli si sientiva un incapace. Lui non riusciva proprio a scrivere un racconto di una, due paginette.
“Io...io devo analizzare i personaggi, devo costruirli; far sì che il lettore veda ciò che vedo io quando immagino la storia. Devo creare la situazione, descrivere i particolari! Come posso far tutto questo in un paio di pagine?”, si disperava Bentolli.



Non molto differente era la situazione di Mara, aspirante cantante.
Mara fu notata da un importante discografico in cerca di nuovi volti che una sera la vide in un pub, accompagnata da un ragazzo al piano.
“In te vedo una luce mai vista; sei diversa dai cantanti che passano oggi in radio. Sei ciò che cercavo da anni!”, le disse il magnate.
In quel momento Mara sentì di aver già raggiunto l'apice. Grazie a quel contratto avrebbe potuto comunicare alle masse qualcosa che fino a quel momento era rimasto inespresso perché a nessuno andava di ascoltarlo: la sua interiorità, i suoi pensieri, la sua visione del mondo.
Di lì a poco però, le furono date delle direttive dalla casa discografica, su come scrivere i testi perché ciò che lei, entusiasticamente proponeva loro, veniva puntualmente bocciato.
“Questa è roba da depressi, mia cara! Il cuore? La verità? Ma dove si è mai visto un cantante parlare di queste palle? Il pubblico vuole ben altro, bambina mia! Vuole ballare! A loro non interessa del testo...e nemmeno troppo della melodia, basta che faccia muovere loro il culo!- disse il magnate e poi continuò :“Ascolta, ti darò delle parole chiave per scrivere un testo e tra tre giorni lo voglio in sala registrazione, intesi? Allora prendi nota: discoteca, estate, ragazzi, sguardi, bacio, ritmo, notte. Tutto chiaro? Buon fine settimana, mia cara!”. Mara non ebbe nemmeno il tempo di rispondere che il produttore se n'era già andato sbattendo la porta.
Così il giorno seguente decise di andare al parco per trovare l'ispirazione per scrivere un testo.
Incontrò il signor Bentolli che era lì per lo stesso motivo.
Fu un colpo di vento a farli incontrare. Un colpo di vento che trasportò il foglio del testo di Mara, sulla cartella di appunti di Bentolli.
Erano due parolieri e non faticarono ad entrare in contatto.
“Anche tu ti nutri d'inchiostro?”, chiese Bentolli.
“Inchiostro e note musicali” rispose Mara, “Lei cosa scrive?”
“Io scrivo racconti che nessuno ha la pazienza di leggere. Tu?”

Lei ridacchiò timidamente e poi disse: “ Io scrivo cose che poi metto in musica, ma il mio produttore sembra cercare altro, non credo di essere ciò che vogliono. Non so scrivere canzoni 'felici', come le definiscono loro. Cioè, io credo le mie lo siano; io sono me stessa quando parlo delle mie emozioni, quando do ascolto ad esse, quando parlo di persone che camminano lungo di una strada infuocata.”
“Mi hai terribilmente incuriosito...”, disse Bentolli mentre i suoi occhi diventavano due fessure, nello sforzo di vedere all'interno di quella ragazza. “ Potrei leggere qualcosa di tuo?”.
“Solo se io potrò leggere un suo racconto!”
“E sia!”
I due dissero che si sarebbero rivisti l'indomani alla stessa ora e allo stesso posto e così fu.
Si ritrovarono sulla stessa panchina senza saper cosa dire. Per la prima volta, due parolieri erano a corto di parole, per il semplice fatto che nel leggere l'uno dell'altro, avevano scoperto di loro stessi.
Bentolli cercò le parole più semplici del mondo.
“I tuoi testi non sono affatto tristi, sono anzi il più lucido e dolce racconto della vita che io abbia mai letto. Qualunque melodia potrebbe adattarsi a queste parole, anche una ritmata, basta crearla!”
“Davvero non ti sei rattristato nel leggerli?”
“Lo giuro! E...tu invece sei riuscita a non addormentarti col mio racconto?”, chiese lui imbarazzato e quasi automaticamente, come se conoscesse già la risposta che aveva ormai interiorizzato dalle case editrici.
“Certamente! Mi ha tenuto compangnia tutta la notte! Dopo le prime tre pagine ero troppo curiosa di scoprire il seguito, così sono rimasta svelia tutta la notte a leggerlo.”, disse lei con occhi brillanti d'entusiasmo e sincerità.
“ Non...non lo hai trovato prolisso?”
“Assolutamente no. Come avrei potuto inquadrare Jane, la protagonista, se non l'avessi descritta con tanta dovizia di particolari? E' una figura importante ai fini dello sviluppo della storia!”
Si guardarono senza proferir parola per qualche minuto e capirono chi erano.
Bentolli e Mara capirono che non dovevano essere qualcuno in funzione di qualcosa bensì qualcuno in funzione di loro stessi. Capirono che la loro non era incapacità ma inadeguatezza. Perché la verità, la profondità, l'estro e la vera natura sono sempre fuori moda...

Avevano compreso però, che per “essere adeguati”, dovevano “adeguarsi” a loro stessi.