domenica 16 novembre 2014

Unisciti al vortice. (sono chiamata, come tutti, a diffondere ciò che ho scoperto, ciò che ho sentito nelle profondità dell'anima.)

Che l'energia ti pervada.
Che l'energia invada ogni singolo piccolo spazio di te, del tuo corpo.
Tanto da esser all'esterno manifesta. Sulla tua pelle vibrante e colorita di benessere.
Che l'energia di pervada.
Mangia la frutta, mangia la verdura solamente lavata e a crudo condita. Assimila l'integrale, la totalità delle cose, non una parte di esse.
Cogline poi l'essenza nel movimento.

Senti il tuo corpo. Sentilo.
Senti che vibra al suono prodotto dalla nota più acuta di un consapevole cantante.
Vibra anche tu con esso, produci anche tu il suono. Un suono, quello che il tuo corpo sente di emettere. Che sia un lamento sconnesso, una parola ben distinta, o una vocale.
Senti il tuo corpo bruciare sotto lo sforzo della corsa e sentine il dolore dei muscoli restii ad allungarsi. Immagina un viso davanti a te e allungati per prenderlo tra le mani e carezzarlo, i tuoi muscoli si tenderanno senza remore.
Fallo al buio, senza distrazioni. E' nel nero che intravedi una luce. E' nel nero che cercherai tutti i tuoi colori. Ed è lì che li scoprirai come il più entusiasta e deterinato degli esploratori.
Allena l'energia del pensiero, la concentrazione. Convoglia tutto il tuo potenziale energetico al centro. Resta in piedi, appena dondolante. Unisci le mani a preghiera, il sacro gesto della sottomissione e della comprensione, del chieder scusa, della prostrazione difronte all'immensità del meccanismo del quale fai parte.
Unisciti al vortice.

Ascolta la musica, lascia che la melodia sia il dito che preme l'interruttore che apre le porte dell'anima. Danza oppure non farlo. Danza muovendoti e poi da fermo. E' importante farlo in entrambi i modi perché nel primo, allenerai la mente a tacere, il secondo sarà l'esame, la prova della riuscita dell'allenamento.
Canta mentre danzi.
Crea un vortice e poi entra in esso.
Muovilo.
Tienilo in vita, come se dipendesse da te.


Immagina.
Ma più d'ogni altra cosa, fai.
Immagina e poi fai.
Vivi. Agisci. Sii.





sabato 15 novembre 2014

The Burden

ispiratomi da:
   The Burden (Salomè)- credits: http://www.sicioldrart.com/

La portata del nostro squarcio di vita è troppo grande. Troppo grande per custodirti solo nell'anima e nel cuore. Sto facendo la cosa giusta, lo so, me lo dice ogni singola molecola del mio sangue.
Lo prendo e lo metto nella bisaccia, badando bene a non graffiarlo né scheggiarlo.
Contemporaneamente al chiudersi del portone alle mie spalle, un violento schiaffo del vento mi coglie impreparata. Non importa, ne ho ricevuti molti altri in passato e non solo dal vento.
Il mio inceder si fa sicuro; feroce come se stia per trasformarmi in quella famosa tigre di cui si parlava ai tempi; sotto l'influsso di questa falce di luna che mi comanda, mi assoggetta completamente, mi dà vita.
Il vento non è solo forte, ma gelido. Sento che sto per farmi compatta in ogni mia parte.
Mai come oggi, sento di saper cosa voglio, cosa sto facendo, devo portarti e tenerti con me per l'eternità; finché durerà la mia.
Tante cose ho imparato da te. Una di queste, scalare. Che si trattasse di montagne, come uno dei più bravi escursionisti; o di muri, come il più agile ed invisibile dei ninja. Impara l'arte e mettila da parte, è così che si dice? Io non metto da parte niente, e così ogni giorno rivivo i tuoi insegnamenti, le mie paure, il cuore che si piega sotto la sferza dei crampi del passato. Ogni giorno rivivo ogni cosa, l'arte del vivere e del non vivere.

Un ultimo sforzo e la scalata mi porterà nel tuo antro.
Sono qui.
Tu dormi nella soffice morsa dei due cuscini, i soliti. Uno tra le gambe, ed uno sotto il capo. Il calore che cerchi, lo trovi lì. Perdonami d'aver mancato, di non avertelo saputo donare.
Bando alle ciance, ti farò mio per sempre, una volta per tutte. Non con le mie solite parole delle quali mi son fin ora servita per la tessitura di poesie e raccontini, ma con i gesti. Uno solo.
Sei di spalle, allora vengo io da te, faccio il giro.
L'angelo che ho sempre ammirato come in un affresco è ancora lì, in te. Sottile ed impercettibile il tuo respiro. Fiabesco nella sua inverosimilità.
Chissà cosa stai sognando. Sogni sempre, tu. Film del più raffinato e psicologico stile fantasy. Ode al tuo inconscio, che straborda da ogni connessione neuronale.
D'un tratto sento di volermi coricare con te, abbracciarti da dietro; esplorare per ricordare i solchi del tuo petto, statuario. Ma non posso lasciarmi andare a simili amorevolezze. Nemmeno questa volta...

Lo tiro fuori dalla bisaccia. Brilla sotto il chiarore della falce celeste, il mio pugnale arabo.
Farò presto Amore. Non ti farò del male, questa volta.
Prometto che sarà indolore. Manterrò la parola data, questa volta.
In me l'eccitazione di una bambina che scarta i suoi regali. Ma devo stare attenta, non lasciarmi prendere dall'entusiasmo del farti mio per sempre, ed essere finalmente matura. Almeno questa volta.
Il colpo è secco, sono stata molto brava. Hai avuto giusto il tempo di aprire i tuoi occhi meravigliosi ed imploranti. Hai quasi sussurrato il mio nome, ed io il tuo.
Ho detto “Amore”, questa volta.
Scappo via, scappo via lasciando insanguinate le lenzuola e monco il tuo corpo. Mancante di ciò che più avevi fino a qual momento curato: la testa.

Ho chiesto alla sarta di cucire questo copricapo con la più pregiata delle stoffe e la più resistente delle pelli. Dev'esser davvero ben fatto per poter reggere il peso di cotanta brillantissima materia grigia e dev'esser bellissimo ma non appariscente, per esser all'altezza della singolarità dei tuoi tratti e della luminescenza dei tuoi occhi, che ancor brillano, seppur senza vita ormai.
Ti ho con me ora. Ed è per sempre. 
E' pesante, sì. E' pesante il fardello di cui voglio farmi carico. Non potrebbe esser altrimenti, visto il vissuto. Ma sono disposta a portarlo, sono decisa a farlo. E' tutto pronto, sono forte ormai.
Non solo ho il tuo capo, ma me lo porto sempre dietro, anzi davanti, come se volessi comunicare ad ogni uomo, ad ogni donna, ad ogni essere che incontro lungo il cammino, che non c'è speranza, che sono ormai morta, perché quel giovane con cui condivisi la vita per un tempo, vive ancora in me, e me lo porto dietro ovunque vada.
Senza alcuna speranza-né volontà- di liberazione.



domenica 26 ottobre 2014

لا شيء يعجبني- Nulla più mi sorprende



"Nulla più mi sorprende", Mahmud Darwish


Un viaggiatore sul bus dice: Né la radio o il giornale del mattino, né le cittadelle sulle colline.
Ho voglia di piangere.
Il conducente del bus dice: Attenda fino ad arrivare alla stazione,
poi potrà piangere da solo quanto vorrà.
Una donna dice: Anche a me. Niente più mi sorprende. Ho condotto mio figlio alla mia tomba,
gli piaceva e si è addormentato lì, senza salutarmi.
Uno studente dice: Anche a me, nulla mi sorprende più.
Ho studiato archeologia ma non ho trovato l'identità nelle pietra.
Io, sono davvero io?
E un soldato dice: Anche a me. Niente mi sorprende più.
Ho sempre assediato un fantasma e adesso assediano me
Il conducente innervosito dice: Qui siamo quasi vicino alla nostra ultima tappa, preparatevi per scendere. . .
I passeggeri urlano: Vogliamo ciò che c'è al di là della stazione,
vada avanti!
Per quanto mi riguarda, dico al conducente: Fatemi scendere qui. Io sono
come loro, nulla più mi sorprende, e sono stanco di viaggiare.




لا شىء يعجبني

يقول مسافرٌ في الباصِ -- لا الراديو
ولا صُحُفُ الصباح , ولا القلاعُ على التلال.
أُريد أن أبكي
يقول السائقُ: انتظرِ الوصولَ إلى المحطَّةِ,
وابْكِ وحدك ما استطعتَ
تقول سيّدةٌ: أَنا أَيضاً. أنا لا
شيءَ يُعْجبُني. دَلَلْتُ اُبني على قبري'
فأعْجَبَهُ ونامَ' ولم يُوَدِّعْني
يقول الجامعيُّ: ولا أَنا ' لا شيءَ
يعجبني. دَرَسْتُ الأركيولوجيا دون أَن
أَجِدَ الهُوِيَّةَ في الحجارة. هل أنا
حقاً أَنا؟
ويقول جنديٌّ: أَنا أَيضاً. أَنا لا
شيءَ يُعْجبُني . أُحاصِرُ دائماً شَبَحاً
يُحاصِرُني
يقولُ السائقُ العصبيُّ: ها نحن
اقتربنا من محطتنا الأخيرة' فاستعدوا
للنزول...
فيصرخون: نريدُ ما بَعْدَ المحطَّةِ'
فانطلق!
أمَّا أنا فأقولُ: أنْزِلْني هنا . أنا
مثلهم لا شيء يعجبني ' ولكني تعبتُ
من السِّفَرْ

giovedì 23 ottobre 2014

E l'incubo ridivenne sogno

Camminavo.
Camminavo ininterrottamente da giorni ormai, e non erano i piedi ad affondare nella sabbia ma la sabbia stessa a risucchiarli. Non vedevo altro all'orizzonte se non il pezzo di stoffa nero che mi lasciava scoperti solo gli occhi, e le dune.

Poi, d'un tratto, vidi il mare.
All'inizio non riuscivo bene ad identificarlo, strizzavo gli occhi e l'immagine si faceva sempre più nitida. Vedevo il mare e dietro di esso la montagna, la vegetazione verdissima. La conoscevo. la riconoscevo. Sembrava questa immagine avanzasse verso di me inesorabilmente.
E c'eri tu. C'eri tu sulla spiaggia fatta solo di sassolini.
Il mare adesso era nei miei occhi ed usciva da essi travolgendomi le guance ed il copricapo. Tutto stava bagnandosi. Ed io, che non fui mai animale acquatico, iniziai ad aver paura. Sapevo che le acque stavano per chiamarmi a loro, volevano darmi solo qualche minuto di lucidità ancora. Non respiravo già più.
Ed il sogno divenne incubo.


Ma poi, finalmente, le tue braccia a tirarmi fuori dall'acqua, a salvarmi. Per l'ennesima volta.
Amata, amata sempre. Amata per sempre. Inesorabilmente, ogni giorno fino negli interstizi dell'anima. Fin dentro, spolveravi con la luce delle tue scintillanti pupille del color più bello visto mai. E le tue ciglia lunghe a far spazio alla dolcezza. Innamorata e abbandonata alla sicurezza mi lasciai trasportare a riva, là dove l'acqua massaggiava delicatamente solo gli arti stanchi. Làddove l'acqua è refrigerio e non minaccia. Là dove le labbra riscaldate dalle tue, con i sensuali e dolci versi della poesia del bacio, e i piedi ancorati alla libertà.
E l'incubo ridivenne sogno.



mercoledì 15 ottobre 2014

Eye-contact is soul-contact

Questa sera tornavo a casa in bicicletta. Un gatto riposava accucciato sotto una macchina.
Lo vedo. Inizio a produrre i miei soliti versi sconnessi e bimbeschi, tipici di quando vedo un animale. Chissà cosa pensano di me, loro, gli animali. Che sono un alieno idiota, probabilmente. Ma non importa, non posso resistergli.
Ad ogni modo, il felino inizia a fissarmi mentre mi vede sfrecciare pericolosamente vicino a lui. Non si muove di un centimetro però. Rimane lì accucciato a fissarmi per tutto il tempo che i nostri colli e bulbi oculari possano concederci. Io ne rimango turbata, folgorata. I suo occhi sono gialli e luminosissimi.
Allora un'intuizione.
A cosa serve guardarsi negli occhi? Guardandosi negli occhi, due esseri viventi comunicano in un modo primordiale, ben lontano dal verbo.
Paura, sorpresa, passione, compassione, dolore. Questo e molto altro. Avvertimenti, sincerità, intenzioni.
Tutti gli esseri superiori hanno bisogno del contatto visivo. Per amarsi e per capirsi. Per instaurare una connessione che trascende quella corporea.
Ci fate mai caso a quanto poco ci guardiamo negli occhi? Mi capita spesso di camminare mentre parlo con qualcuno e quindi il mio sguardo è a terra, o dritto davanti a me; poi magari siamo in città e quindi mille stimoli, e niente. Niente contatto. Sento ma non ascolto, oppure ascolto ma non sento, non col cuore. Non lo facciamo apposta. Non è colpa nostra, non necessariamente.
E ci avete mai fatto caso invece a cosa sentite, provate, quando siete uno difronte l'altro e vi guardate? O a quando siete lì a cammin-parlare e poi d'un tratto i vostri sguardi volontariamente s'incontrano? Non sto parlando necessariamente di una coppia di persone che potrebbero o sono in un rapporto d'amore del tipo “fidanzati”. Parlo di chiunque. Parlo di qualsiasi cosa.
Non voglio dire niente, niente di particolare. O meglio, non voglio dirlo io, voglio invitare alla riflessione. Anzi all'esperire ciò di cui ho scritto qui.
Guardate le persone negli occhi, qualsiasi cosa stiano dicendo o facendo.
Se ad esempio stanno piangendo, magari avranno la testa chinata, a mo' di ritorsione in loro stessi, come se volessero rientrare nel loro stesso corpo per nascondersi dagli sguardi del mondo. Ecco, guardateli. Guardate le sembianze del loro volto che si piega sotto la sferza del pianto. Una persona, così come un animale, percepisce fisicamente la presenza di uno sguardo su di sé anche senza vederlo con gli occhi. Prima o poi, il piangente si accorgerà della vostra volontà di contatto, e ricambierà.
E' facile guardarsi negli occhi quando si è pervasi dalla gioia. Ma guardarsi negli occhi mentre si piange, magari insieme, quella è un'altra storia. Quella è vera connessione, vera empatia, vero Amore.
Quel tipo di contatto significa “Io voglio vedere il vero colore della tua anima in questo momento, io lo accetto, qualsiasi esso sia, anche se della tonalità più scura. Tanto buio da perdercisi.”
Guardare altrove invece, in un momento così delicato come quello del pianto, determina un allontanamento, un volersi mantenere una spanna più in su, o più a destra o più a sinistra. O più indietro come per dire “Avventuratici da solo nelle abissali profondità della tua straziata anima, io resto qui, quando hai fatto risali.”.
Aiutare è un conto; è bello, dolce, ammirevole.
Ma empatizzare è amare.

mercoledì 10 settembre 2014

La nostra statua

Quante lettere che ti ho scritto, dopo ogni conflitto
Quante canzoni che ho ascoltato, che parlavan di quanto ti avevo amato
Per quanto tempo ti ho afflitto, rendendoti un relitto
Per quanto tempo il tuo cervello ho lambiccato, invece di averti ascoltato


La nostra statua abbiam scheggiato,
pian piano, inesorabilmente
tanto che, pian piano, finì per non rimaner più niente


Quante volte ho sperato, che il nostro amor fosse rinnovato
Quante volte la speranza ho lambito, senza muover un dito
Per quanto tempo ho desiderato, di vederti piangere, accorato
Per quanto tempo ho poltrito, additandoti d'esser sparito


Un giorno, la statua abbiam ricomposto
così, improvvisamente
tanto che, improvvisamente, il cuor è tornato battente




E' vero, forse le viscere non han tremato
ma giuro, con spirito sincero, ti ho amato.



martedì 9 settembre 2014

pessima

Mi piacevano le immagini
ma non troppo le indagini.
Soprattutto quelle sentimentali
mi soffocavo con le mie stesse ali.

Immaginavo e immaginando amavo
credevo e credendo vivevo.
Sbagliavo e sbagliando crescevo
Speravo e sperando morivo.


Un giorno ti ho incontrato e da lì tutto è cambiato
un giorno sei arrivato e l'altro te ne sei andato.
Io ho trovato dimora nelle parti più buie di me
ma ciò di cui ho paura, è vivere, vivere...senza di te.


Soffrivo atrofizzata, seppur da te, una volta fui amata
ma tu dove sei...forse ormai, solo nei sogni miei.











lunedì 7 aprile 2014

La figlia dell'orco e della strega.

Vi racconterò la mia storia.
Sono deforme. Sono la figlia di un orco ed una strega. Somiglio tantissimo a mio padre orco, ho le sue stesse fattezze in viso e persino sulle unghie dei piedi e sugli incisivi ha lasciato il suo marc(h)io distintivo. Non meno somiglianti erano certi tratti caratteriali tipicamente da “omone”. Peccato però, che io ero una femminuccia.. o almeno, in una profondissima profondità del mio inconscio, avrei voluto esserlo.
Da mia madre ereditai invece la necessità, la dipendenza da certe sostanze, certi intrugli; l'esaurimento nervoso.
Insomma, da entrambi il peggio che si poteva ereditare.
Il mio corpo è davvero orrendo. Per non parlare del mio viso adombrato, scuro. Nemmeno il sole osa posarvisi.

Dentro di me però, ho sempre sentito un colorino. Sì, un'essenza colorata. Un po'.
Però l'oscurità è il carattere dominante nel mio dna, e quindi essa non ha potuto mai farsi strada come si deve. O meglio, mio padre orco e mia madre strega non conoscevano altro modo di allevare un cucciolo se non quello col quale erano stati allevati loro e quindi la mia cosa colorata si annerì sempre più. L'autunno era perenne nel mio cuore.

Mi vollero come figlia unica. Fu una decisione ragionata la loro. Volevano un solo giocattolo. Una sola scimmietta da ammaestrare a loro piacimento, secondo le loro regole arbitrarie. E così fu.
Crebbi giocando da sola. Beh, avevo anche degli amichetti, e mi divertivo con loro; ma ero più a mio agio con gli animali; tanto che, nel giro di pochi anni, presi a desiderar ardentemente un cavallo. La libertà dunque. Ma questo mio desiderio del cuore non fu mai esaudito, perché papà orco diceva che lo studiar era più importante. Così dovetti accontentarmi dell'immaginatività.
Ero brava. Ero brava in molte cose. A disegnare, a scrivere, a far di cont...no a far di conto no; a cantare, a recitare; e conoscevo benissimo gli animali. Ma lo studiar era più importante..
Così dovetti reprimere tutto, perpetuarlo nell'immaginazione.
Così fu.


Ero spesso triste, ma col tempo finii per diventarlo sempre più.
Ero spesso sola.
Beh, ero sempre sola.
Quando ero piccola mi piaceva star da sola, era la mia dimensione. C'ero solo io, potevo gestire il gioco a mio piacimento, fare entrambi i personaggi, quindi sapevo esattamente come volevo che andasse a finire la storia. Nessun fraintendimento.
Ero l'anima gemella di me stessa.
Col passar del tempo, ci furono dei brevi periodi in cui altri esseri viventi mi accompagnarono lungo il cammino della mia vita immobile. Ma a poco a poco, tutti se ne andavano. Perché credo, delle volte il sole accidentalmente mi colpiva, e dunque la loro vista era inorridita da ciò che ero, dentro e fuori. Non essendo mai stata abituata al confronto, all'alterità, non ero facile da amare. Impossibile direi.
Non era però così facile per loro, andarsene. Si sentivano tutti in colpa (meno male, è già qualcosa). Così cercavano di non ferirmi, ma io avevo ereditato la ferita cronica da mia madre (e col tempo sviluppai anche quella cosmica, ma questo se permettete..fu merito mio) e quindi inevitabilmente si rompevano le dighe di contenimento dei fiumi salati.


Un giorno mi ritrovai sola. Completamente sola. Mi svegliai ed ero sola.
Era lunedì, poi martedì e poi mercoledì ed ero sola. Poi giovedì, venerdì, sabato e a maggior ragione domenica ed ero so-la.
Mio padre non viveva più nella casa in cui mi tenevano prigioniera dalla nascita. Si era ritrovato in mezzo ai debiti di gioco con altri orchi e poi era andato a rincorrere una fatina bionda di stagno.
Quindi io vivevo con mia madre strega. Ma era come se non ci conoscessimo affatto. Ci infastidivamo a vicenda con le nostre presenze.
Insomma ero sola.
Ero sola nella mia cella e quando fuggivo nei boschi. Ovviamente anche quando camminavo per strada, a maggior ragione.


A volte era ancora bello, anche se non come un tempo e..beh per poco tempo. Cioè solo qualche volta. Raramente.


Poi un giorno, morii sola.
Fine.

venerdì 31 gennaio 2014

Al buio.

Al buio.
Al buio Brunilde percepiva ogni piccola parte del suo corpo. Ritrovava la pelle delle sue mani notevolmente invecchiata ad ogni sguardo. I solchi erano simili a quelli del suolo dei deserti aridi di certe zone del pianeta. A mano a mano sempre più profondi. Sin dall'infanzia aveva l'abitudine di mangiarsi la pelle intorno alle unghie dei pollici. Una volta, alle elementari, una maestra le chiese se si fosse ustionata in quei punti. La pelle aveva assunto una sfumatura di un dolcissimo color rosa pallido ed era tutta frastagliata, piena di solchi, marmorizzata. Brunilde ricordava di quell'episodio il fatto che prima di quel momento, non ci aveva mai fatto caso. Così da quel momento iniziò a pensare a come la vedevano gli altri, dall'esterno. La loro percezione forse poteva essere diversa da quella che lei aveva di se stessa, e magari gli altri potevano far caso a ciò a cui lei non poneva attenzione, considerandolo ovvio.
Al buio.
Al buio Brunilde faceva ogni cosa. Essere esposta alla luce del giorno o a quella artificiale, la rendeva terribilmente triste a causa del fatto che doveva tendere i suoi muscoli, fingere.

Il buio era la sicurezza, la comprensione, la protezione dagli attacchi esterni, il conforto. La punizione che inconsapevolmente infliggeva a se stessa per il fatto di non sapere dov'era.
Esattamente. Brunilde non sapeva dov'era. Nel senso, Brunilde non sapeva dove si nascondesse davvero Brunilde. Quale fosse la sua vera casa.
Aveva girato molti posti, o forse nessuno, e Brunilde era in ognuno di essi, e quindi in nessuno.
Il sogno di Brunilde era trovare un posto adatto per Brunilde.
Ma qual era? Qual era Il posto? Quale il luogo dell'essenza?
Al buio.
Al buio Brunilde un giorno si mise a correre. Corse in quei posti a lei quasi del tutto estranei e ad un certo punto vide qualcosa. Vide Brunilde con la sua mamma. Questa baciava le sue guance perfettamente sferiche, come del resto il suo capo; la teneva ben salda tra le sue braccia. L'amava così, come lei stessa aveva sempre desiderato essere amata.
In quell'amore, Brunilde era l'oggetto o il soggetto, a seconda dei punti di vista. Lei era al centro dell'attenzione per il semplice fatto che esisteva. Brunilde apprese quella condizione.
Crescendo, Brunilde continuava ad essere amata per il semplice fatto che esisteva, ma non per ciò che era.
Nessuno sapeva chi era, nemmeno lei. Ma avendo appreso la condizione dell'amore passivo, non si sentiva in dovere di scoprirlo e, se qualcuno ci provava, lei lo respingeva ferocemente, terrorizzata, in piena difesa territoriale.
“Io non so cos'è, MA E' MIO! MH. Non osare avvicinarti!” ...


Correva e poi d'un tratto vide questo e dovette fermarsi, non poté fare altrimenti. Vide tutto rischiararsi. Al buio.

Gradualmente si dischiudeva la sua bocca perfettamente disegnata, come un bocciolo di rosa fa con la sua vita fresca. Gli occhi si sgranavano sempre più, per cercare di identificare lo spazio intorno a lei, ma tutto era sommerso dalle tenebre. Era una bella sensazione di accoglienza, quella.
Brunilde aveva capito almeno una cosa: che non sapeva amare. Non semplicemente che lei non amasse, non sapeva proprio farlo! E questo perché le era stato insegnato qualcos'altro, e cioè ad essere oggetto di attenzioni morbose che la sua mamma identificava come amore. La sua povera, mai amata mamma.
Insomma le era stato inculcato il ricevere senza fine, mai il dare.
Brunilde non decideva mai per se stessa o di se stessa. Brunilde non remava mai, si lasciava piuttosto trasportare dalla corrente.

Al buio.
Al buio Brunilde sedeva sul freddo pavimento della solitudine; tenendo le ginocchia strette al petto e la testa chinata nell'incavo del suo cuore. Al buio Brunilde versava i liquidi nascosti nelle profondità del suo corpo più difficili da raggiungere. Lei scendeva lì giù, prendeva l'acqua salata e la faceva uscire attraverso dei condotti delicatissimi, color ambra e nocciola.
E così, ancora una volta, perdeva parti di sé per poi sentirsi a pezzi.

Nell'esatto momento in cui Brunilde vide farsi chiaro, si accorse di sentire qualcos'altro; una cosa che desiderava da moltissimo tempo. Finalmente Brunilde non aveva più paura della morte. Questa era una cosa fantastica per una come lei, perennemente terrorizzata dall'irrimediabilità delle cose!
Finalmente avrebbe potuto decidere della sua morte, e quindi della sua vita, senza paura ed in totale autonomia! Le dispiaceva solo che non avrebbe più potuto condividere quel momento con la persona che sempre aveva voluto accanto. Molto tempo prima gli aveva chiesto se avesse voluto condividere la morte con lei, e lui acconsentì; ma ora che finalmente lei non la temeva più e che la vedeva quindi come possibilità di liberazione, non poteva più aspettare!


Prese Matteo, amore, padre, amico e fratello; i suoi gesti, i suoi sguardi straripanti di verità e le sue parole colme d'amore; e se le mise nel cuore. Non avrebbe mai potuto abbandonarle se non nelle profondità della sua putrefazione interiore, per non discostarsi troppo dalla sua egoistica natura. Prese la sua povera madre distrutta e se la mise sulla schiena e poi si girò a guardare suo padre, ormai così lontano da apparire ai suoi occhi solo come un puntino d'odio e risentimento sulla ventilata collina. Prese il ricordo del suo amato cagnolino, morto di dolore interiore e obesità qualche tempo prima; prese il ricordo della sua cavalla dal mantello infuocato, morta di dolore anch'ella e di parto, che Brunilde aveva seppellito nel cuore, insieme al suo puledro che non vide mai la luce del sole.
Prese tutte queste cose e se le mise nel cuore, quindi esso pian piano iniziò ad andare in putrefazione per la presenza di troppe carcasse morte di dolore; per la presenza delle parole inascoltate; dei ricordi dell'amore al quale non aveva dato la possibilità di perpetuarsi. Prese tutte queste cose e mentre il suo cuore iniziava a morire, lei se lo staccò dal petto e lo lasciò nell'erba appena ricresciuta dopo un incendio. Esso boccheggiava come un pesce appena pescato e sbattuto sul fondo della barca con tutta la violenza di cui solo un pescatore è capace.
Brunilde finalmente era libera di vivere e così fece, togliendosi la vita.

Il suo cuore fu rinvenuto pochi giorni dopo. Ormai non boccheggiava più, ma era ancora integro. Lo ritrovò Matteo,che era andato sulla rupe alla ricerca di Brunilde, sicuro che l'avrebbe trovata lì. E così fu. Trovò il suo cuore, che era la stessa cosa.
Lo portò alla madre e non poterono far altro che stringersi in un abbraccio infinito, d'amore. Solo il padre di Brunilde sembrava non essere minimamente mosso dall'accaduto. Vide il reperto, finse di dare un colpo di tosse e si voltò nuovamente indietro, per tornare a casa sua. Da solo.

domenica 19 gennaio 2014

La storia degli incapaci.

Si sentiva esattamente come quando vieni rifiutato dalla ragazza alla quale hai fatto il filo per troppo tempo ed in ogni modo possibile. Poco importava poi, se non si trattava di una ragazza ma di una casa editrice. Il concetto era lo stesso.
“Lei è troppo prolisso, signor Bentolli. Noi siamo indirizzati verso qualcosa di più sintetico, immediato...ci dispiace..”

Le parole potevano cambiare leggermente da una casa editrice all'altra, ma la melodia era la stessa: i suoi raconti erano troppo lunghi. La tendenza del momento era il minimal. Minimal nella musica, minimal nel modo di vestire, e minimal nella narrativa.
Il signor Bentolli si sientiva un incapace. Lui non riusciva proprio a scrivere un racconto di una, due paginette.
“Io...io devo analizzare i personaggi, devo costruirli; far sì che il lettore veda ciò che vedo io quando immagino la storia. Devo creare la situazione, descrivere i particolari! Come posso far tutto questo in un paio di pagine?”, si disperava Bentolli.



Non molto differente era la situazione di Mara, aspirante cantante.
Mara fu notata da un importante discografico in cerca di nuovi volti che una sera la vide in un pub, accompagnata da un ragazzo al piano.
“In te vedo una luce mai vista; sei diversa dai cantanti che passano oggi in radio. Sei ciò che cercavo da anni!”, le disse il magnate.
In quel momento Mara sentì di aver già raggiunto l'apice. Grazie a quel contratto avrebbe potuto comunicare alle masse qualcosa che fino a quel momento era rimasto inespresso perché a nessuno andava di ascoltarlo: la sua interiorità, i suoi pensieri, la sua visione del mondo.
Di lì a poco però, le furono date delle direttive dalla casa discografica, su come scrivere i testi perché ciò che lei, entusiasticamente proponeva loro, veniva puntualmente bocciato.
“Questa è roba da depressi, mia cara! Il cuore? La verità? Ma dove si è mai visto un cantante parlare di queste palle? Il pubblico vuole ben altro, bambina mia! Vuole ballare! A loro non interessa del testo...e nemmeno troppo della melodia, basta che faccia muovere loro il culo!- disse il magnate e poi continuò :“Ascolta, ti darò delle parole chiave per scrivere un testo e tra tre giorni lo voglio in sala registrazione, intesi? Allora prendi nota: discoteca, estate, ragazzi, sguardi, bacio, ritmo, notte. Tutto chiaro? Buon fine settimana, mia cara!”. Mara non ebbe nemmeno il tempo di rispondere che il produttore se n'era già andato sbattendo la porta.
Così il giorno seguente decise di andare al parco per trovare l'ispirazione per scrivere un testo.
Incontrò il signor Bentolli che era lì per lo stesso motivo.
Fu un colpo di vento a farli incontrare. Un colpo di vento che trasportò il foglio del testo di Mara, sulla cartella di appunti di Bentolli.
Erano due parolieri e non faticarono ad entrare in contatto.
“Anche tu ti nutri d'inchiostro?”, chiese Bentolli.
“Inchiostro e note musicali” rispose Mara, “Lei cosa scrive?”
“Io scrivo racconti che nessuno ha la pazienza di leggere. Tu?”

Lei ridacchiò timidamente e poi disse: “ Io scrivo cose che poi metto in musica, ma il mio produttore sembra cercare altro, non credo di essere ciò che vogliono. Non so scrivere canzoni 'felici', come le definiscono loro. Cioè, io credo le mie lo siano; io sono me stessa quando parlo delle mie emozioni, quando do ascolto ad esse, quando parlo di persone che camminano lungo di una strada infuocata.”
“Mi hai terribilmente incuriosito...”, disse Bentolli mentre i suoi occhi diventavano due fessure, nello sforzo di vedere all'interno di quella ragazza. “ Potrei leggere qualcosa di tuo?”.
“Solo se io potrò leggere un suo racconto!”
“E sia!”
I due dissero che si sarebbero rivisti l'indomani alla stessa ora e allo stesso posto e così fu.
Si ritrovarono sulla stessa panchina senza saper cosa dire. Per la prima volta, due parolieri erano a corto di parole, per il semplice fatto che nel leggere l'uno dell'altro, avevano scoperto di loro stessi.
Bentolli cercò le parole più semplici del mondo.
“I tuoi testi non sono affatto tristi, sono anzi il più lucido e dolce racconto della vita che io abbia mai letto. Qualunque melodia potrebbe adattarsi a queste parole, anche una ritmata, basta crearla!”
“Davvero non ti sei rattristato nel leggerli?”
“Lo giuro! E...tu invece sei riuscita a non addormentarti col mio racconto?”, chiese lui imbarazzato e quasi automaticamente, come se conoscesse già la risposta che aveva ormai interiorizzato dalle case editrici.
“Certamente! Mi ha tenuto compangnia tutta la notte! Dopo le prime tre pagine ero troppo curiosa di scoprire il seguito, così sono rimasta svelia tutta la notte a leggerlo.”, disse lei con occhi brillanti d'entusiasmo e sincerità.
“ Non...non lo hai trovato prolisso?”
“Assolutamente no. Come avrei potuto inquadrare Jane, la protagonista, se non l'avessi descritta con tanta dovizia di particolari? E' una figura importante ai fini dello sviluppo della storia!”
Si guardarono senza proferir parola per qualche minuto e capirono chi erano.
Bentolli e Mara capirono che non dovevano essere qualcuno in funzione di qualcosa bensì qualcuno in funzione di loro stessi. Capirono che la loro non era incapacità ma inadeguatezza. Perché la verità, la profondità, l'estro e la vera natura sono sempre fuori moda...

Avevano compreso però, che per “essere adeguati”, dovevano “adeguarsi” a loro stessi.