domenica 26 ottobre 2014

لا شيء يعجبني- Nulla più mi sorprende



"Nulla più mi sorprende", Mahmud Darwish


Un viaggiatore sul bus dice: Né la radio o il giornale del mattino, né le cittadelle sulle colline.
Ho voglia di piangere.
Il conducente del bus dice: Attenda fino ad arrivare alla stazione,
poi potrà piangere da solo quanto vorrà.
Una donna dice: Anche a me. Niente più mi sorprende. Ho condotto mio figlio alla mia tomba,
gli piaceva e si è addormentato lì, senza salutarmi.
Uno studente dice: Anche a me, nulla mi sorprende più.
Ho studiato archeologia ma non ho trovato l'identità nelle pietra.
Io, sono davvero io?
E un soldato dice: Anche a me. Niente mi sorprende più.
Ho sempre assediato un fantasma e adesso assediano me
Il conducente innervosito dice: Qui siamo quasi vicino alla nostra ultima tappa, preparatevi per scendere. . .
I passeggeri urlano: Vogliamo ciò che c'è al di là della stazione,
vada avanti!
Per quanto mi riguarda, dico al conducente: Fatemi scendere qui. Io sono
come loro, nulla più mi sorprende, e sono stanco di viaggiare.




لا شىء يعجبني

يقول مسافرٌ في الباصِ -- لا الراديو
ولا صُحُفُ الصباح , ولا القلاعُ على التلال.
أُريد أن أبكي
يقول السائقُ: انتظرِ الوصولَ إلى المحطَّةِ,
وابْكِ وحدك ما استطعتَ
تقول سيّدةٌ: أَنا أَيضاً. أنا لا
شيءَ يُعْجبُني. دَلَلْتُ اُبني على قبري'
فأعْجَبَهُ ونامَ' ولم يُوَدِّعْني
يقول الجامعيُّ: ولا أَنا ' لا شيءَ
يعجبني. دَرَسْتُ الأركيولوجيا دون أَن
أَجِدَ الهُوِيَّةَ في الحجارة. هل أنا
حقاً أَنا؟
ويقول جنديٌّ: أَنا أَيضاً. أَنا لا
شيءَ يُعْجبُني . أُحاصِرُ دائماً شَبَحاً
يُحاصِرُني
يقولُ السائقُ العصبيُّ: ها نحن
اقتربنا من محطتنا الأخيرة' فاستعدوا
للنزول...
فيصرخون: نريدُ ما بَعْدَ المحطَّةِ'
فانطلق!
أمَّا أنا فأقولُ: أنْزِلْني هنا . أنا
مثلهم لا شيء يعجبني ' ولكني تعبتُ
من السِّفَرْ

giovedì 23 ottobre 2014

E l'incubo ridivenne sogno

Camminavo.
Camminavo ininterrottamente da giorni ormai, e non erano i piedi ad affondare nella sabbia ma la sabbia stessa a risucchiarli. Non vedevo altro all'orizzonte se non il pezzo di stoffa nero che mi lasciava scoperti solo gli occhi, e le dune.

Poi, d'un tratto, vidi il mare.
All'inizio non riuscivo bene ad identificarlo, strizzavo gli occhi e l'immagine si faceva sempre più nitida. Vedevo il mare e dietro di esso la montagna, la vegetazione verdissima. La conoscevo. la riconoscevo. Sembrava questa immagine avanzasse verso di me inesorabilmente.
E c'eri tu. C'eri tu sulla spiaggia fatta solo di sassolini.
Il mare adesso era nei miei occhi ed usciva da essi travolgendomi le guance ed il copricapo. Tutto stava bagnandosi. Ed io, che non fui mai animale acquatico, iniziai ad aver paura. Sapevo che le acque stavano per chiamarmi a loro, volevano darmi solo qualche minuto di lucidità ancora. Non respiravo già più.
Ed il sogno divenne incubo.


Ma poi, finalmente, le tue braccia a tirarmi fuori dall'acqua, a salvarmi. Per l'ennesima volta.
Amata, amata sempre. Amata per sempre. Inesorabilmente, ogni giorno fino negli interstizi dell'anima. Fin dentro, spolveravi con la luce delle tue scintillanti pupille del color più bello visto mai. E le tue ciglia lunghe a far spazio alla dolcezza. Innamorata e abbandonata alla sicurezza mi lasciai trasportare a riva, là dove l'acqua massaggiava delicatamente solo gli arti stanchi. Làddove l'acqua è refrigerio e non minaccia. Là dove le labbra riscaldate dalle tue, con i sensuali e dolci versi della poesia del bacio, e i piedi ancorati alla libertà.
E l'incubo ridivenne sogno.



mercoledì 15 ottobre 2014

Eye-contact is soul-contact

Questa sera tornavo a casa in bicicletta. Un gatto riposava accucciato sotto una macchina.
Lo vedo. Inizio a produrre i miei soliti versi sconnessi e bimbeschi, tipici di quando vedo un animale. Chissà cosa pensano di me, loro, gli animali. Che sono un alieno idiota, probabilmente. Ma non importa, non posso resistergli.
Ad ogni modo, il felino inizia a fissarmi mentre mi vede sfrecciare pericolosamente vicino a lui. Non si muove di un centimetro però. Rimane lì accucciato a fissarmi per tutto il tempo che i nostri colli e bulbi oculari possano concederci. Io ne rimango turbata, folgorata. I suo occhi sono gialli e luminosissimi.
Allora un'intuizione.
A cosa serve guardarsi negli occhi? Guardandosi negli occhi, due esseri viventi comunicano in un modo primordiale, ben lontano dal verbo.
Paura, sorpresa, passione, compassione, dolore. Questo e molto altro. Avvertimenti, sincerità, intenzioni.
Tutti gli esseri superiori hanno bisogno del contatto visivo. Per amarsi e per capirsi. Per instaurare una connessione che trascende quella corporea.
Ci fate mai caso a quanto poco ci guardiamo negli occhi? Mi capita spesso di camminare mentre parlo con qualcuno e quindi il mio sguardo è a terra, o dritto davanti a me; poi magari siamo in città e quindi mille stimoli, e niente. Niente contatto. Sento ma non ascolto, oppure ascolto ma non sento, non col cuore. Non lo facciamo apposta. Non è colpa nostra, non necessariamente.
E ci avete mai fatto caso invece a cosa sentite, provate, quando siete uno difronte l'altro e vi guardate? O a quando siete lì a cammin-parlare e poi d'un tratto i vostri sguardi volontariamente s'incontrano? Non sto parlando necessariamente di una coppia di persone che potrebbero o sono in un rapporto d'amore del tipo “fidanzati”. Parlo di chiunque. Parlo di qualsiasi cosa.
Non voglio dire niente, niente di particolare. O meglio, non voglio dirlo io, voglio invitare alla riflessione. Anzi all'esperire ciò di cui ho scritto qui.
Guardate le persone negli occhi, qualsiasi cosa stiano dicendo o facendo.
Se ad esempio stanno piangendo, magari avranno la testa chinata, a mo' di ritorsione in loro stessi, come se volessero rientrare nel loro stesso corpo per nascondersi dagli sguardi del mondo. Ecco, guardateli. Guardate le sembianze del loro volto che si piega sotto la sferza del pianto. Una persona, così come un animale, percepisce fisicamente la presenza di uno sguardo su di sé anche senza vederlo con gli occhi. Prima o poi, il piangente si accorgerà della vostra volontà di contatto, e ricambierà.
E' facile guardarsi negli occhi quando si è pervasi dalla gioia. Ma guardarsi negli occhi mentre si piange, magari insieme, quella è un'altra storia. Quella è vera connessione, vera empatia, vero Amore.
Quel tipo di contatto significa “Io voglio vedere il vero colore della tua anima in questo momento, io lo accetto, qualsiasi esso sia, anche se della tonalità più scura. Tanto buio da perdercisi.”
Guardare altrove invece, in un momento così delicato come quello del pianto, determina un allontanamento, un volersi mantenere una spanna più in su, o più a destra o più a sinistra. O più indietro come per dire “Avventuratici da solo nelle abissali profondità della tua straziata anima, io resto qui, quando hai fatto risali.”.
Aiutare è un conto; è bello, dolce, ammirevole.
Ma empatizzare è amare.